Il Grande e Potente OZ

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 “How hard can it be to kill a Wicked Witch?”

Se sapete da dove viene il nome di questo blog, capite bene che per me Il grande e Potente OZ non può essere un film come un altro. Il Mago di Oz è uno dei miei film preferiti, uno dei primi che ho visto, l’unico che alla centesima visione ancora mi impaurisce (stramaledetta Strega) il primo che ho comprato in DVD (e ne ho tre copie). Quindi non aspettatevi troppa obiettività, almeno in questa sede.  

Nella cultura americana, The Wonderful Wizard of Oz (libro) è un classico della letteratura per l’infanzia (a noi  facevano leggere quella cagata della Via Paal…) ma il film è ben altro: è un punto fermo della cultura popolare, come Elvis. Ed è uno dei massimi capolavori del cinema, citato forse più di Star Wars (anzi, citato prima di tutto in Star Wars): l’ultima che ho colto è in The Avengers, ma per esempio c’è un’intera puntata di Scrubs che omaggia il film. Il fatto che non ci siano mai stati remake in quasi cento anni la dice lunga sulla sacralità di quell’opera.

Tutte le modifiche apportate dalla Warner al libro di L. Frank Baum sono protette da copyright e molte di esse sono diventati veri e propri simboli del film ed elementi della cultura pop. Uno su tutti: le scarpette di rubino, che nel libro sono d’argento. Ma anche la risata della Strega dell’Ovest, il suo incarnato verde e il suo tema musicale sono protetti da copyright.

Ora: la Disney detiene i diritti di tutto il corpus di Baum da oltre cinquant’anni, ma Il Grande e Potente OZ è solo il secondo tentativo andato in porto di adattamento, dopo il fallimentare Return to Oz (altro film che mi spaventava a morte da piccolo). Il guaio è che OZ, nell’immaginario collettivo è come l’ha mostrata la Warner, non Baum. E la Disney non può usare quell’iconografia senza pagare, pur avendo i diritti su tutto il resto.

Bel casino. Il film di Sam Raimi risente pesantemente di tutta questa situazione:  non può, per eredità culturale e marketing, slegarsi dal film della Warner, ma deve tenersi a distanza legale dalla sua proprietà intellettuale.

La scelta, ardita, è stata quella di omaggiare il più possibile il film del 1939 riprendendone quanti più elementi possibile dal film sia in termini cinematografici (esempio: l’utilizzo del bianco e nero per il Kansas e del colore per OZ) che narrativi (esempio: ci sono solo tre streghe, e due sono sorelle), arrivando a creare di fatto un prequel plausibile e coerente, nonostante tutti i limiti del caso, e sfruttando molti degli elementi dell’immaginario di Baum che ancora non avevano trovato posto sul grande schermo – ad esempio gli abitanti di porcellana. Al contrario del pessimo lavoro fatto da Tim Burton con il Paese delle Meraviglie, la OZ di Sam Raimi è al contempo un posto familiare, ma nuovo, e il film rivela spesso la mano del regista, dal make up delle streghe (che ricorda Drag me To Hell) al cameo dell’immancabile Bruce Campbell ai montaggi stile Spider-Man e a un tono generale mai del tutto serio. Le interpretazioni del cast mi hanno lasciato interdetto. A prima vista, sembrano tutti sottotono, eccessivi: poi ho pensato al vecchio film. La recitazione di James Franco, Michelle Williams, Rachel Weisz e Mila Kunis ricorda quella dei personaggi di un musical, solo che non cantano mai.

Il risultato è un film intelligente e divertente, forse frenato dalla necessità di riprendere l’originale (il finale è un po’ troppo aperto, se consideriamo il film a sè stante) e dalla mania dei prequel di voler collegare forzatamente tra loro elementi del film (Darth Vader che costruisce C-3P0, per capirci), ma anche molto più adulto di quanto ci si potrebbe attendere. Dopo aver rovinato Alice nel Paese delle Meraviglie e Tron, temevo molto per quello che la Disney avrebbe potuto fare al Mago di OZ (così come temo per l’Episodio VII). Invece Il Grande e Potente OZ è un film di Sam Raimi a tutti gli effetti (nel bene e nel male) e almeno non è l’ennesimo banale sfruttamento di franchise.

Non entrerà negli annali del cinema, probabilmente, ma basterà a portarvi fuori dal vostro grigio Kansas almeno per un paio d’ore.

Vi rimando a filmscoop.it per un’analisi più approfondita.